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«Una è la fede cristiana»
Conferenza tenuta nella Cattedrale di Notre-Dame di Parigi il 30 novembre 1980
Vorrei meditare con voi l’unità della nostra fede. Come poter conciliare l’intima convinzione che la nostra fede è una – molto concreta e quasi tangibile – con un’altra alle volte inquieta e turbata e che vi sono molte e varie cose da credere? Sono i cosiddetti «articoli di fede» di cui nessuno può indicare il numero esatto: alcuni ci sembrano plausibili, mentre di altri, ci domandiamo è proprio necessario crederli? Non potremmo valerci di quella «gerarchia delle verità», di cui si parla tanto, e lasciar perdere le meno importanti?
Per trovare una prima soluzione riflettiamo un momento su questa espressione curiosa: «articoli di fede». Non si tratta, è chiaro, di articoli esposti in vetrina per essere venduti. Si tratta precisamente di articolazioni di un organismo vivente, di giunture (è il senso della parola latina articulus) che permettono al corpo di muoversi liberamente in maniera agile e sovrana.
Non perché l’uomo ha molte membra diverse misconosciamo la sua personalità unica. Non perché il Vangelo ci riporta tanti episodi vari, tante parole e azioni del Cristo, ci accade di non riconoscere più la sua originalità. Più una personalità è notevole, più è ricca in possibilità di esprimersi.
Insistiamo ancora un momento sulla struttura dell’organismo. Uno dei segni che un corpo occupa un posto elevato nella linea evolutiva è la sua ossatura interna. Perché l’uomo possa stare in piedi e il primo degli esseri della terra muoversi in tutti i sensi, i suoi muscoli e i suoi nervi devono essere sostenuti da uno scheletro solido e rigido: è proprio la fissità di alcuni organi – del resto vivi quanto i muscoli – che facilita l’agilità, i movimenti, gli sport, la danza, che permette la profonda espressione di se stessi, il rapporto scambievole tra le persone.
A parte la natura delle cose, è assurdo opporre negli esseri viventi, ciò che è immobile e ciò che è in movimento, il diritto e la libertà, l’istituzione e la vita. La libertà stessa reclama la sfera dei suoi diritti, ed è autorizzata a farlo. Perché allora nella nostra fede, che non è un mollusco, ma una cosa nobile e alta non esisterebbero gli elementi forti e stabili che sostengono la nostra vita cristiana, e le danno la sua sicurezza, la sua semplicità, la disinvoltura dei figli di Dio?
Passiamo ora alla fede cristiana stessa. Come si articola per poter dimostrare la ricchezza interiore della sua unità? La dimostrazione più facile sarà quella che comincia dal nostro Credo, sintesi formulata dalla Chiesa primitiva e rimasta valida senza cambiamenti fino alle nostre celebrazioni domenicali. Certo esiste una forma più breve, detta simbolo degli Apostoli, e una un po’ più sviluppata, con qualche aggiunta fatta nei due primi concili di Nicea e di Costantinopoli, con qualche precisazione sulla Persona del Cristo, sullo Spirito Santo e sulla Chiesa. Ma le due forme sono per noi ugualmente familiari, non vi vediamo nessuna contraddizione. La loro struttura di fondo è estremamente semplice, consiste nel riferimento e chiarimento reciproco di due elementi, concernenti l’uno la natura di Dio, l’altro colui che questo Dio ci ha rivelato: il Cristo Gesù.
Parleremo dunque, anzitutto del nostro Dio, poi del Cristo che lo rivela, in terzo luogo dello Spirito divino diffuso nei nostri cuori e termineremo con una duplice considerazione: quale è il posto della nostra fede nella storia dell’umanità? Come parlare degnamente di Dio?
Sappiamo tutti che il Credo ha tre parti che cominciano con le parole: «Credo in Dio Padre, credo in Gesù Cristo Suo Figlio, credo nello Spirito Santo». Questa tripartizione è nata da tre domande che il vescovo o il sacerdote ponevano a chi chiedeva il battesimo: Credi nel Padre, nel Figlio e nello Spirito come in un solo Dio? Sempre la Chiesa ha condannato l’eresia triteista: il Dio della Bibbia, quello del Nuovo Testamento, come quello dell’Antico, è un Dio geloso della sua unicità, ma anche un Dio che riversa su di noi le sue ricchezze di Vita infinita; se questo Dio è Amore non solo verso di noi, ma in se stesso, nella sua eternità, deve contenere la reciprocità del dono e la fecondità assoluta.
Ma come arriveremo a questa nozione di Dio apparentemente così strana che (agli ebrei e ai musulmani, monoteisti come noi) sembra addirittura contraddittoria? Noi vi arriviamo con un secondo elemento del Credo, che consiste in uno sviluppo considerevole della sua seconda parte, quella del Figlio; sceso dal cielo per la nostra salvezza, incarnato per opera dello Spirito Santo, nato dalla vergine Maria, ha sofferto per noi sotto Ponzio Pilato, è stato Crocifisso, morto e sepolto, disceso agli inferi, risorto il terzo giorno, salito al cielo, siede alla destra del Padre e noi lo attendiamo come giudice dei vivi e dei morti.
Elementi che si basano su fatti storici, che dominano tutta la storia del mondo e la trasformano in una epopea, un dramma tra Dio e l’umanità.
Questi avvenimenti sono riferiti dai primi testimoni oculari e credenti e dai documenti che ci hanno lasciato. Ora tutti questi avvenimenti non hanno senso se non si considerano con gli occhi e gli orecchi della Chiesa, soltanto così appaiono come una Parola unica di Dio; questo è d’importanza capitale. L’epistola agli Ebrei inizia con la constatazione che nell’Antico Testamento Dio ha parlato varie volte e in vari modi ai profeti, giustapponendo elementi preparatori, sillabe per così dire che non esprimono ancora chiaramente e definitivamente la Parola, per riassumere infine tutto con la Nuova Alleanza nel suo Verbo, fatto carne per noi, nel suo Verbo crocifisso e morto per noi. Consegnandocelo (dice san Paolo) Dio ha dato tutto, tutto se stesso, si è espresso completamente. La fede proclama l’unità del Verbo che è vissuto sulla terra, è morto ed è risorto. Se si cerca di separare un Gesù di Nazareth da un Cristo della fede, non si capisce più nulla: questo Gesù astratto sarà soltanto uno spettro, come Renan o Bultmann o qualche altro hanno creduto. L’unità della Parola che Dio ci rivolge e che da sola dà un senso sta nelle due parolette: pro nobis, per noi, che vogliono dire non soltanto «in nostro favore», ma al nostro posto, sostituendosi alla nostra condizione di peccatori o, come dice il Battista, caricandosi del peccato del mondo.
Una breve parentesi a proposito del problema oggi aspramente discusso. Se veramente ciò che Dio dice nel Vangelo non ha senso che nella sua unità, se il Verbo divino è soltanto espresso nell’unità indissolubile della vita, morte e resurrezione di Gesù, sarebbe concepibile che questo Gesù non abbia niente presentito sul senso della sua morte, che sia vissuto, almeno per un certo tempo nell’illusione di poter convertire Israele? La sua coscienza sarebbe stata inferiore a quella dei grandi profeti come Isaia, Geremia, Ezechiele, ai quali Dio ha annunciato fin dall’inizio lo scacco finale e, anche sapendolo, hanno tuttavia tentato con tutte le loro forze di realizzare l’impossibile. Il Vangelo non è forse pieno di oscuri presentimenti? Un battesimo terribile, per esempio (che Gesù dovrà subire); una morte prevista a Gerusalemme (poiché nessun profeta muore fuori della città omicida); perfino predizioni formali, che non possono essere fabbricate a cose fatte, tanto più che i discepoli confessano sempre di non averle capite. Vero è che il Cristo parla poco dell’effetto salutare della sua Croce. Non dice: voi mi sconfesserete, ma io sono più forte di voi, porterò il vostro peccato.
Da una parte Cristo è pura obbedienza al Padre, non dispone né della sua morte né della sua vita; l’ora suprema, l’ora misteriosa delle tenebre resta unicamente a disposizione del Padre, ed è lo Spirito Santo che, più tardi, ne spiegherà al mondo il valore. Inoltre una tale rivelazione da parte del Figlio non sarebbe stata forse il colmo del cattivo gusto? È davvero strano che certi esegeti non l’abbiano osservato. Se il Verbo è l’unica parola di Dio nella quale Egli (secondo san Giovanni della Croce) ha detto tutto, e se questo Verbo è l’uomo Gesù Cristo, cosciente di quello che è, bisogna ch’egli abbia avuto coscienza della propria unità di cui fa parte la sua morte propiziatrice e la sua resurrezione. E per compiere una missione così divina, quest’uomo deve essere egli stesso Dio.
Bisogna accettare questa conclusione, la Chiesa l’ha sempre fatto e nessun teologo moderno può negarlo. A che servirebbe che un uomo come noi si sia fatto crocifiggere duemila anni fa per essere «solidale» con noi? Assolutamente a nulla se quest’uomo per la sua qualità di Figlio unico, di Verbo di Dio, non è autorizzato a prendere sulle sue spalle quel carico inconcepibile che siamo noi. Ci vuole una potenza o un’impotenza, una forza e, insieme, una debolezza divina per lasciarsi opprimere, trafiggere da tutto quello che, nella nostra umanità, offende e umilia la Bontà assoluta. Ci vuole – ancora una volta – un amore infinito per assumere interamente tutta questa negatività e non crollare sotto il suo peso. Dice san Giovanni: «Avendoci amato, è giunto sino all’estremo dell’amore» (13,1). Un amore che, secondo il Cantico, è più forte dell’inferno.
Da questo capiamo che il nostro secondo tema, quello cristologico, resterebbe incomprensibile se non si unisse al primo, il trinitario.
Se esistesse soltanto un Dio che, nel cuore della storia, soffre di tutto il male di questo mondo, ne muore e possiede in se stesso il potere di rivivere, saremmo in piena mitologia pagana. Se invece non esistesse che un bene trascendente, sole impassibile, che illumina dall’alto tutto il dramma atroce della nostra storia, niente sarebbe salvato, guarito, giustificato nell’intimo e bisognerebbe ancora, nel modo pagano, fuggire questo mondo, svalutarlo, accusarlo di essere soltanto un’illusione passeggera.
Come risolvere il dilemma tra la mitologia di un Dio sofferente da una parte, e dall’altra la filosofia di un Essere supremo impassibile? Di un Dio dei tragici greci, e un Dio dei filosofi? Ebbene, esiste una sola via per uscire da questo dilemma e la indica l’esistenza di Gesù Cristo: Egli si distingue dal Padre che lo ha inviato, al quale obbedisce fino alla morte, ma in questa perfetta obbedienza ci rivela la volontà salvifica del Padre, il suo Cuore infinitamente compassionevole. «Nessuno ha visto Dio – dice ancora san Giovanni – il Figlio unico, rivolto verso il seno paterno, autos exegesato [Gv 1,18], è lui che ci ha dato l’esegesi, la spiegazione, la rivelazione».
Il Dio compassionevole, era già conosciuto nell’Antico Testamento, come un Dio non mitologico, ma che, per la sua Alleanza così rischiosa con l’uomo peccatore, si era già, in un certo senso impegnato nel dramma della storia: consegnato, legato. Ma solo la Nuova ed Eterna Alleanza rivela fino a che punto è giunta questa compassione di Dio; ha strappato dal suo Cuore quello che amava di più, quello che da tutta l’eternità era frutto del suo amore, quel Logos, quel Figlio, consegnato agli uomini e che, nell’uomo Gesù Cristo, ci ha rivelato tutto l’amore del Padre.
Qui non si tratta più di mitologia, ma in piena storia resta Mistero, che si può cogliere soltanto con la fede, sebbene verificabile in tutto il Vangelo e il Nuovo Testamento. È necessario lasciarsi impregnare dalle sue parole e dal suo Spirito nel contatto diretto e immediato, per trovare accesso alla fede cristiana nella sua essenza.
Bisogna insistere: «Dio è amore», è questa l’ultima parola della Rivelazione. In un mondo dal volto sfigurato non sembra forse un’affermazione ridicola? Nessuna religione ha mai rischiato una simile asserzione. Dio può essere l’Assoluto, il Nirvana di tutto quanto esiste, il Bene supremo, lo Spirito che ammira se stesso, ma chi oserebbe attribuirgli l’Amore per questo mondo fallito di cui egli è in definitiva responsabile? Per sostenere questa asserzione, ci vorrebbe una prova forte. E ve n’è una sola: la Croce come la Chiesa l’ha sempre vista, come Maria, e con lei tutti coloro che credono, l’hanno compresa. Il grande grido della notte buia: «Perché mi hai abbandonato?», il cuore ferito fino all’intimo dove scorre il Fiume della Vita non è solo il grido e il cuore di un poveruomo, ma questo grido risuona nello spazio dell’Amore eterno e il Cuore aperto non è solo quello di Gesù, ma in lui quello del Padre. Soltanto oggi intravediamo ciò che questo nome di Padre contiene.
O ferita veramente regale!
o linfa di Dio che si dona!
O colpo così fieramente inferto tra la costola e il fianco
che penetra fino al centro della Trinità.
(Claudel)
Ma non è tutto. Dio consegnando il Figlio nelle nostre mani ha consegnato se stesso. E Gesù con la sua donazione attiva e passiva, si è dato anch’Egli del tutto: «Mangiate il mio corpo dato per voi, bevete il mio sangue versato per voi». In noi stessi noi accogliamo questo amore che si diffonde nei nostri cuori: questo il significato originario delle parole del Credo: sanctorum communio, la comunione alle Cose sante, con la quale si realizza, in seguito, la reciproca comunione nell’amore divino, la «comunione dei santi».
Di questo si tratta nella terza parte del Credo che parla dello Spirito Santo. Chi è Egli se non l’eterno amore reciproco tra il Padre e il Figlio, il Dono per eccellenza, che nell’effusione del Cuore divino raggiunge il più profondo di noi stessi e ci rende capaci di essere trasformati, anche noi, in un dono per Dio e per i nostri fratelli, in un semplice «grazie» per ciò che abbiamo ricevuto? Questo è il mistero cristiano più meraviglioso: che bevendo l’acqua divina ne diventiamo sorgenti noi stessi. Il Cristo lo dice apertamente alla Samaritana: «chi beve l’acqua che io do non avrà mai più sete; quest’acqua diventerà in lui sorgente zampillante per la vita eterna…».
Parlando dello Spirito Santo, bisogna notare una singolarità del Credo. Due volte si tratta di lui: una prima volta al momento dell’Incarnazione del Figlio, «concepito di Spirito Santo»; una seconda volta all’inizio del terzo articolo. Nei due casi lo Spirito è citato insieme a un essere femminile: qui Maria; lì la Chiesa. Qui Maria, la Vergine immacolata; lì la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica. Lo Spirito è dono, deve essere accolto. Ora, il potere di accoglienza è proprio dell’essere donna e, di fronte al Dio creatore, ogni creatura accogliente è femminile. Ma, attenzione; il potere di accogliere non è affatto una passività. Nella genesi naturale del bambino la parte della donna è molto più attiva di quella dell’uomo. E nella generazione soprannaturale di Gesù dapprima e dei cristiani in seguito, a Maria e alla Chiesa è dato un potere d’accoglienza straordinario che altro non è se non quello della fede viva.
Come poteva Dio diventare uomo tra noi, se non accolto con una fede, una gioia totale, che lo avesse accettato come Egli voleva darsi? In Maria tutta la fede di Abramo, d’Israele, quella fede così lungamente vissuta, si è concentrata e superata in un atto che ha racchiuso tutta la sua esistenza: corpo, anima e spirito; in quel «sì» incondizionato, la Parola eterna è potuta diventare parola umana di Dio, l’uomo che esprime il Cuore del Padre.
Notiamo, tra parentesi, che le parole del Credo «concepito di Spirito, nato dalla Vergine» sono insostituibili; il Figlio unico del Padre non può essere generato «né da volere di carne, né per volere d’uomo, poiché è da Dio generato» (Gv 1,13). Alioquin essent duo patres («altrimenti vi sarebbero due padri»), dice Terulliano, il che sarebbe assurdo.
Maria è l’aurora e il modello della Chiesa. L’accoglienza dell’amore del Padre e del Figlio portata in lei dallo Spirito, il Dono assoluto: questa accoglienza è la Chiesa. Anch’essa, la Donna per eccellenza, è unità di accoglienza nella fede perfetta, dunque unità santa, unità che riassume in Lei tutto il creato; dunque unità cattolica, unità che deriva senza interruzione da Gesù e dai suoi primi discepoli eletti e credenti; dunque unità storica, apostolica. La ricchezza della Vita trinitaria del Dio unico si riversa nella ricchezza della Chiesa unica con il dono del Dio-Spirito nella parola profetica, nei Sacramenti vivificanti – battesimo, comunione, remissione dei peccati – in vista di un ritorno della Creazione universale nel Milieu Divin: (Theillard de Chardin) resurrezione – dopo quella di Gesù – non soltanto di uno spirito, di un’anima, ma di tutta quella realtà fisica che noi siamo e senza la quale non saremmo noi stessi. Charles Péguy lo ha ripetuto a sazietà.
Tutto questo conduce a una «Vita eterna». Si tratta di una Vita, non soltanto di una visione di Dio. Certo lo vedremo come Egli è (san Giovanni lo assicura). Ma non lo si vedrebbe se non si partecipasse al dramma eterno della sua vita infinitamente creatrice e tutto quello che abbiamo vissuto, sofferto, prodotto quaggiù, non sarà escluso da quella vita (come un preludio superato), ma al contrario incluso in essa, e rivelato nelle sue profonde radici che già fin d’ora vi sono immerse poiché quaggiù mediante lo Spirito, noi già viviamo nella Vita divina. «In vita come in morte apparteniamo al Signore» (Rm 14,8) «che è morto e risorto per noi» (2 Cor 5,15). Non crediamo dunque che vi sia un abisso o anche soltanto una distanza tra la vita mortale e quel che chiamiamo l’al di là. La vita eterna è presente nel tempo e nello spazio nostro e sottende le nostre esistenze individuali, quelle dei popoli e dell’umanità. Il Verbo Eterno è stato espresso con parole umane che i semplici (e non i sapienti) comprendono, e l’ultima parola è detta da Colui che ha il cuore trafitto: «Il Padre vi ama» (Gv 15,21) e vi accoglierà nella sua dimora come siete.
Questo rapido sguardo sul Credo della nostra fede non aveva altro scopo che farci vedere e sentire la sua unità. Ogni giuntura è necessaria a questo organismo, una sola pietra di questo edificio vivente non potrebbe esserne sottratta senza che tutto crolli. Ci sarebbero, certo, da aggiungere molte precisazioni. Ogni articolo è carico di misteri e ogni rapporto dei vari aspetti ne aumenta il peso e il numero. Ma voglio lasciare a tutti voi la gioia di queste scoperte mai esaurite.
Lasciatemi finire su due considerazioni, l’una che si potrebbe dire apologetica, l’altra piuttosto teologica.
La prima. In che modo il Credo cattolico si pone tra le religioni, le filosofie, le ideologie umane? Ognuna deve rispondere a tre domande: Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo? Ma oggi la filosofia cede sempre più il posto alle scienze, e quindi sempre più ci si contenta della prima domanda: chi siamo? Vi rispondono la psicologia e la sociologia. Le domande d’inizio, dell’Alfa, e della fine, dell’Omega, restano senza risposta, non interessano più. Ma in ogni uomo vi è un fondo di religione che non può sopprimere l’estrema angoscia: che senso ha tutto questo?
Vi sono due direzioni per cercare la risposta. Verso la prima, l’Alfa, si dirigono le religioni pagane. Esse sanno in profondità che tutto questo essere relativo non ha senso assoluto e definitivo, che bisogna mettersi in cammino verso l’origine, ritrovare la sorgente. Di qui nascono tutte le mistiche, le tecniche di purificazione, d’immersione nelle profondità del soggetto, tutti i tentativi di estasi, i ritorni al mondo delle idee. Il ramo cerca il tronco, la radice, la physis, cioè il principio di crescita dal quale tutto è uscito. Il movimento verso Dio è chiaramente designato, ma la risposta rimane incerta. Quasi sempre il mondo appare come il risultato di una alienazione, di una deviazione, di una caduta, incomprensibile, ma che bisogna assolutamente annullare: si raggiungerà l’infinito soltanto negando il finito.
L’altra direzione punta verso il futuro, verso l’Omega: è la direzione ebraica. Abramo per primo cammina nella fede verso un futuro assoluto, un futuro divino in cui si realizzeranno le promesse di Dio. Attraverso tutta la sua tragica storia, Israele ha conservato la direzione verso un’era messianica: l’assoluto non è in alto, ma davanti e attira il «principio speranza». L’ebraismo moderno ha spesso lasciato cadere il punto di partenza di questa speranza, l’alleanza con JHWH, per conservare soltanto il movimento profetico verso l’avanti. Allora è l’uomo che deve, a partire da zero dell’essere, generare la Totalità: qui pongono Marx e Bloch e tanti altri profetismi che rimangono utopici, poiché come farà l’uomo a vincere il male e la morte? E, anche se ne trionfa, come giustificherà tutto il passato sanguinario della sua storia.
Resta il problema finale: come conciliare questi due movimenti elementari, quello verso l’origine e quello verso la fine, come unire la religione pagana e l’ebraismo poiché i due restano irreconciliabili? Paolo più di ogni altro ne ha sentito e vissuto tutta la tragedia. Ora, fin dal principio, era missione della Chiesa congiungere in se stessa i due movimenti. Missione estremamente difficile fino a oggi e tuttavia già risolta prima in Gesù Cristo, l’uomo ebreo vivo, morto e risorto per tutti. È proprio questa unità, stabilita dal Verbo incarnato, che Paolo chiama il Mistero. In Gesù, e in Lui solo, l’Alfa è svelata: è il Padre amante, creatore libero del cielo e della terra. L’Omega a sua volta è scoperto: è lo Spirito che lavora la storia e compie nello stesso tempo quello che il Creatore e il Redentore vi hanno avviato. Lo Spirito non parlerà di se stesso, non vi sarà il regno dello Spirito al di là dell’opera unificata dal Padre e dal Figlio, al di là della creazione fondata e della Chiesa santa e sacramentale, ma la Speranza è grandissima, non come principio astratto, ma come promessa già in via di compimento per le garanzie dello Spirito.
Quello che ho esposto mi sembra un’apologetica elementare per la fede ecclesiale cristiana a partire dalla sua unità, come la esprime il Credo una prova, mi sembra, irrefutabile, che nel centro alla storia vi è una sola sintesi, sempre cercata, mai trovata se non nella fede cristiana. La seconda, e ultima, considerazione riguarda la teologia. Sappiamo che, dopo Descartes e Francis Bacon, la scienza si definisce come metodo, di dominare gli oggetti – e tra gli oggetti delle scienze umane vi è l’uomo stesso che, dominandosi, rischia di diventare una cosa.
La teologia, secondo san Tommaso, è la scienza il cui oggetto è costituito dagli articoli di fede; in breve: il Credo. Il problema è evidente: domineremo noi mai il contenuto della fede? Non dovremmo piuttosto noi lasciarci dominare? In primo luogo la creatura non domina mai Dio, una teo-logia, una scienza di Dio sarà ben altra cosa che le nostre scienze intramondane. Ma c’è di più. Il Credo ci ha rivelato, in una indissolubile unità, un Dio che è puro Amore in se stesso, così come nella sua effusione verso di noi, le sue creature e che, con il Figlio e lo Spirito, ci unisce indissolubilmente a Sé e ci unifica tra noi.
Il Credo non è soltanto una professione di fede, ma è un attestato d’amore, una risposta incondizionata alla carità assoluta. In fondo il Credo è una preghiera, un’adorazione. Poiché non si può parlare di Dio in modo neutro: o si consente alla sua esistenza e ci si sottomette alla sua sovranità o lo si nega e allora non vale la pena di parlarne.
È chiaro che questo non si applica soltanto al Credo, che è il nocciolo della teologia, ma a ogni discorso teologico. L’ascoltatore deve sempre sentire che chi gli parla di Dio o del Cristo sa di trovarsi sotto l’ascendente del suo soggetto, che richiede di essere amato sopra ogni cosa. Israele lo ha compreso. Dopo vari secoli di Alleanza vissuta con JHWH, il Dio fedele per sempre, il Deuteronomio formula la risposta del popolo: poiché JHWH è il solo Dio, l’amore non può essere diviso. «Tu amerai il tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze». E l’Israele credente non ha mai avuto, in fondo, altra teologia che una risposta di fede, di lode, di dialogo con Dio.
Abbiamo meditato abbastanza quei passi del Nuovo Testamento in cui Gesù non fa che ripetere il Grande Comandamento, aggiungendovi quello dell’amore del prossimo, ma esigendo l’amore totale anche per Sé? Vi sono delle frasi che cominciano con le parole: «Se mi amate…». Vi è la domanda a Pietro: «Mi ami tu più di questi?» in cui questo amore era condizione per poter pascere il gregge del Signore. Vi è poi la frase autografa che termina la prima Epistola ai Corinzi e che sembra ripetere un’acclamazione liturgica già in aramaico, poi in greco: «Chiunque non ama il Signore (Gesù) sia anatema», Anathema sit non dice che è escluso dalla salvezza, ma da quella comunità la cui ragione d’essere è amare il Signore. Vi è la finale dell’Epistola agli Efesini: «La grazia incorruttibile sia con tutti coloro che amano il nostro Signore Gesù Cristo».
L’amore di Gesù è dunque incluso nel Grande Comandamento perché la Chiesa afferma che Egli è «Dio da Dio, Luce da Luce, vero Dio dal vero Dio, generato non creato, della stessa natura del Padre, e per Lui tutto è stato fatto». Questa confessione è un’adorazione, e chi la mette in dubbio non potrà essere definito un teologo cristiano.
La parola «teologia» si applicava dapprima ai grandi inni di adorazione delle principali divinità greche. I Padri della Chiesa adoperavano lo stesso vocabolo per indicare quelli che, pieni di Spirito Santo, sapevano parlare degnamente dell’Amore. Maria e Giovanni l’Apostolo erano i teologi per eccellenza, ma avvenne che furono detti così anche tutti coloro che il mattino di Pasqua furono inondati dallo Spirito. Ne segue che ogni cristiano può essere un teologo se si lascia guidare dallo Spirito del Cristo e bevendo quell’acqua divina può divenire sorgente zampillante di Vita Eterna. Così il Credo è la lode della grazia che giunge dalla Vita eterna e ci guida verso questa Vita.
La fede cristiana è dunque una, perché il Dio trino che confessiamo è uno; perché Cristo, il Verbo fatto carne è uno, unendo in sé Dio e il mondo; perché il Cristo è una cosa sola con la sua Chiesa, che è una perché, nella preghiera e nell’adorazione, il cuore umano è uno con lo Spirito che prega in lui. Tutto è rapporto e dialogo interiore.
Questa è la Vita vera, quella che dovremmo vivere. Fratelli e sorelle, cerchiamo di farlo, con la grazia di Dio.
Hans Urs von Balthasar
Original title
“La Foi chrétienne est une”
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Language:
Italian
Original language:
FrenchPublisher:
Saint John PublicationsYear:
2023Type:
Article
Source:
Monastica 39/3 (Civitella S. Paolo, 1998), 5–21